PASSIONE

dal romanzo Passio Laetitiae et Felicitatis di GIOVANNI TESTORI

con Maddalena Crippa e Giovanni Crippa
un progetto di Daniela Nicosia
scene Gaetano Ricci
costumi Silvia Bisconti
disegno luci Stefano Mazzanti
luci e suono Paolo Pellicciari
elementi coreografici Laura Zago
drammaturgia e regia Daniela Nicosia
produzione Tib TeatroI Teatri del SacroFondazione Teatri delle Dolomiti

In qualunque rapporto d’amore c’è una tristezza sconfinata, tuttavia, se questa
tristezza viene accettata e accolta con carità, in primis come parte della coscienza
di sé, allora diventa dramma, e può offrire qualcosa agli altri

Giovanni Testori

L’inferno della solitudine e il paradiso della Duità, tra questi due poli si dispiega la storia di Felicita, la “disaccentuata”, e della sua disperata ricerca d’amore. Un’esistenza intessuta di dolore, sconvolta dalla morte improvvisa, a soli diciotto anni, del fratello, amato così tanto da sfiorare l’incesto, dalla violenza sessuale subita, dall'innamoramento per il Cristo, col conseguente prendere i veli, e infine dall'amore per la giovane Letizia, grazie al quale Felicita conosce la felicità, solo per un attimo destinato a tradursi in tragedia.
Dolore, fatica e violenza compongono la via crucis della vita, in una vicenda blasfema e carnalmente mistica, in cui il rapporto religioso può apparire dissacrato, mentre racchiude, insieme all'invettiva, tutto lo strazio e l’umiltà della preghiera, in un costante dialogo con Cristo.
Sullo sfondo il paesaggio umano di una Brianza di struggimenti e di miseria.

 

NOTE DI REGIA
DI DANIELA NICOSIA

In Passio Laetitiae et Felicitatis - titolo che parafrasa un testo della martirologia cristiana - romanzo, teatro e poesia, come scrisse Giovanni Raboni, “si fondono al calore di un «plurilinguismo totale», che non coinvolge soltanto il lessico ma anche i generi, approdando ad una sorta di Wort-Ton-Drama”, che nell’idioletto di Felicita, misto di latino, francesismi, lombardo e lingua del seicento, unisce il colto al popolare, dando vita ad un prorompente impasto linguistico, che dona corpo, spessore e straordinaria forza comunicativa alla parola. Parola che è essa stessa corpo, con le lacerazioni e il sangue ad esso connesso.
Parola–corpo, – che contiene l’urgenza di essere pronunciata, che già sulla pagina è grido – che, oltre ai profondi interrogativi testoriani sul senso ultimo dell’esistenza presenti nel romanzo, ha fatto nascere in me, come negli interpreti, la necessità di metterla in scena, di declinarla col linguaggio del teatro, che è voce e corpo insieme. Una parola che comprende e abbraccia il dolore, una parola che è passio, passione nel suo significato originario di travaglio, pena, sofferenza, sia nell’atto dell’essere scritta che in quello dell’essere proferita.
Questo rapporto tra colui che scrive e colei che è scritta, mi ha guidata nella scelta di due interpreti, che, a prescindere dai generi, incarnino quella parola, dandole voce. Maddalena e Giovanni Crippa, fratelli nella vita, entrambi uniti dall’unicità di quella lingua, che è sia di Felicita che del narratore, ci raccontano così - in una scena scarnificata, sezionata dai tagli di luce, su cui sola riverbera il segno di una croce - questa storia di fraterne intimità, di languori, di amori irregolari e visionari, generando un singolare corto circuito tra teatro e vita.